Il nostro impegno al sacerdozio ‘esistenza vissuta’

L'omelia del vescovo Luigi alla messa del Crisma de 27 marzo 2013

‘Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore,
ministri del nostro Dio sarete detti.
Io darò loro fedelmente il salario,
concluderò con loro un’alleanza eterna’ (cfr Is 61,6a.8).
 
 
Cari fratelli e sorelle nel sacerdozio ministeriale e battesimale.
Con le parole del profeta Isaia, il Signore, questa sera, si rivolge anche a noi, per ricordarci la nostra identità ‘sacerdotale’ – suo dono, e nostro impegno a renderla ‘esistenza vissuta’.
L’Anno della Fede, che stiamo celebrando, ci impegna in un cammino di purificazione e di rilettura del proprio vissuto umano, cristiano e presbiterale per ritrovare la gioia e la bellezza di appartenere a Gesù Cristo nella Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica.
 
Il Santo Padre emerito Benedetto XVI nel Concistoro pubblico del 18 febbraio dello scorso anno, poneva una serie di antinomie che interrogano l’uomo e la società odierna: ‘dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità’; queste logiche profondamente contrastanti, si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo, ci interpellano e ci stimolano ad una riforma interiore della nostra esistenza di preti e di cristiani.
Il primato allora consiste nella nostra vita umile, trasparente, sostenuta da una fede incrollabile, spesa in un servizio disinteressato che porti, chi sta al margine della Chiesa, a parlare non tanto del nostro fare quanto del nostro essere preti e cristiani.
E questo ‘essere’ diventi calamita che attrae tanti giovani a Gesù Cristo per seguirlo, come il nostro Dario, nel servizio ministeriale.
 
Desidero ritornare all’incontro del 9 febbraio u.s. con il papa emerito Benedetto, a conclusione della visita ‘ad limina apostolorum’.
Presentando questa nostra Chiesa di Civitavecchia-Tarquinia, gli ho riferito che essa abbraccia una popolazione di circa 105.000 fedeli, distribuita in 27 parrocchie, e servita da 53 presbiteri, 15 diaconi permanenti, 27 religiosi, 112 religiose.
Ricordandosi dell’ultima visita nel 2006 e della presentazione che gli fu allora fatta, interloquisce chiedendomi se vi siano ancora molti presbiteri provenienti da aree geografiche diverse e come questi siano inseriti in questa Chiesa. Ho risposto che, pur con fatica, c’è l’impegno a vivere una Chiesa di comunione e di fraternità ed in molti si legge sul volto la gioia ‘che è bello vivere insieme’, come ci ricorda il Salmo che tratta dei legami fraterni che uniscono nel tempio sacerdoti e leviti (cfr Salmo 133).
Infatti, da un rilievo, seppur sommario, nativi di questo territorio sono 15 presbiteri e 9 diaconi permanenti, cioè un terzo del totale dei presbiteri e due terzi dei diaconi permanenti.
Tutti però sono chiamati a lavorare nell’unica Chiesa di Cristo, perché in essa nessuno è straniero ma tutti sono cittadini.
 
E la Chiesa di Gesù Cristo è una, santa, cattolica e apostolica.
L’appartenere totalmente a Cristo, cari confratelli, ci fa essere profondamente legati alla sua Chiesa, che vive in questa porzione di territorio in cui siamo impiantati per fruttificare.
Appartenere a Cristo, ci lega alla Chiesa in un vincolo sponsale che rivela quanto l’amiamo, quanto la custodiamo nell’unità, la serviamo nella gioia, la preserviamo da ogni sporcizia personale e comunitaria, la difendiamo da ogni divisione e dissensi, la imprimiamo nel cuore come ‘sigillo’ perenne di amore.
 
La Chiesa! Noi siamo ministri del Signore, nella Chiesa!
Noi presbiteri ‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo.
‘Se diventiamo del mondo con l’illusione di essergli più vicini, afferma il Presidente dell’Episcopato italiano nella prolusione all’assemblea annuale del 2010, in realtà lo abbandoniamo e non lo serviamo. Essere veramente nel mondo, richiede un’alterità, esige che siamo ‘davanti’ al mondo con un volto e un dono da offrire. Essere del mondo invece, significa non avere più nulla da dire per la sua salvezza e quindi, in fondo, non amarlo davvero’.
(A. Bagnasco, Prolusione all’assemblea CEI 2010)
 
Abbiamo quindi la responsabilità di non sottrarci al nostro ruolo, che è di stimolo, di giudizio, di conforto, di plauso.
La condizione per rimanere sale della terra, per essere termine di confronto e occasione di dialogo anche per i più lontani, e non offrire loro l’ultima illusione nel vasto mercato delle idee alla moda
è rimanere ancorati, nella Chiesa, al servizio presbiterale a cui siamo consacrati dallo Spirito di Dio.
Gesù Cristo va annunciato con gioia e convinzione, nel mistero della sua Persona e nella sua intera verità, comprese le sue implicazioni sul piano antropologico, etico e sociale; e prima di annunciarlo ai fratelli e sorelle della nostra Chiesa particolare, in prima persona ci vuole coinvolgere, vuole interpellarci per cambiare mentalità, atteggiamenti, stile di vita.
 
La nostra vita, cari confratelli, si trova sempre ad un bivio: ‘o santi o falliti’.
E’ una scelta che non può essere rinviata all’infinito; è un aut aut che, se vale per tutti i cristiani dal momento che sono chiamati alla santità, come ci ricorda la costituzione conciliare Lumen Gentium (cap V), per il prete l’appello è pressante e laddove non appare nemmeno lo sforzo, la contraddizione è più evidente e talvolta rasenta lo scandalo.
Sappiamo per esperienza che il cammino della santità non è una facile avventura e nemmeno un esercizio lieve. Le tentazioni ci circuiscono e sono per provare ma anche per irrobustire il nostro rapporto con il Signore.
 
Sant’Agostino ci ricorda: ‘La nostra vita, in questo pellegrinaggio, non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso, se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere’.
(dal Commento sul Salmo 60,2-3)
E Gesù ci ammonisce: ‘A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più’ (Lc 12,48).
 
Cari amici sacerdoti, non dobbiamo mai scoraggiarci di fronte alla vetta che ci sta dinanzi e che è Gesù Cristo, di cui siamo ministri. Dobbiamo allenarci continuamente per divenire campioni di amore nel servizio ministeriale. Occorre continuare a perseverare nell’amore anche quando perdiamo di vista l’amabilità dell’oggetto da amare, perché l’aridità del cuore e la stanchezza del ministero hanno preso il sopravvento.
Amare sempre, nonostante la nostra povertà, consapevoli di contribuire al progetto di Dio, il cui ‘proprio’ è amare tutti, sempre, senza limiti.
E ‘amando troverai la strada, amando troverai la pace’ soleva ripetere fratel Carlo Carretto.
‘Sii come l’antica fontana del villaggio – ha scritto nel diario il beato Giovanni XXIII – che dà l’acqua fresca a tutti quelli che ne hanno bisogno senza attendersi né gratitudine né ricompensa, perché è nella natura dell’acqua dare ristoro a tutti quelli che hanno sete’.
(da Giornale dell’anima).
Un’ultima riflessione vorrei proporre circa il sacerdote a cui viene chiesto di cambiare Parrocchia o Ufficio: è sempre un passaggio delicato. Molti equilibri raggiunti si perdono, altri vanno ricostruiti: nuovi ritmi di vita, nuove relazioni, situazioni inedite da affrontare.
Tutto questo comporta una fatica e un grande lavoro sia a livello psicologico che spirituale.
 
Ogni cambio di destinazione permette però di riscoprire e rivivere la grazia delle origini.
Nel passaggio da una realtà pastorale ad un’altra, il prete sperimenta il coraggio e l’entusiasmo di chi decide nuovamente di mettersi alla sequela del Signore, senza sapere dove lo porterà.
Il sacerdote sceglie di amare e di servire la Chiesa come un bene, di cui non è padrone.
Ritrova le radici della sua vocazione, la bellezza di annunciare il Vangelo a tutti per la edificazione della comunità cristiana. C’è una freschezza del ministero che a volte viene resa opaca da abitudini e cliché che solo i cambiamenti mettono in luce. Anche in questo modo il Signore ci rimette in cammino e torna ad invitarci alla sua sequela.
 
Il trasferimento infine richiama anche l’immagine della via, del cammino, del pellegrinaggio, della strada da percorrere. Richiama la spiritualità della strada.
E lo stare, il permanere nella comunità ci rimanda ad un rimanere più profondo che è quello di Gesù che resta nelle cose del Padre e del discepolo che rimane in lui, unito come il tralcio alla vite.
E per l’evangelista Giovanni il ‘rimanere’ non è sinonimo di immobilità, bensì crea nello Spirito, una ‘circolarità’ con il Padre, il Figlio e il discepolo.
 
Cari amici sacerdoti, anch’io mi domando tante volte come sono approdato a questa Chiesa: poi, trovo un’unica risposta: ‘vivere da discepolo di Gesù Cristo, vuol dire ‘lasciarsi condurre’, obbedire’, ‘servire’, ‘rimanere in Lui’.
 
Con il teologo abruzzese, Michele Giulio Masciarelli, per me e per voi così prego il Signore:
‘Signore Gesù, chiamandoci al sacerdozio,
tu ci hai amati di là d’ogni desiderio del nostro cuore;
tu ci hai onorati di là d’ogni nostro merito;
tu ci hai dato fiducia di là d’ogni nostra affidabilità.
Aiuta, Pastore buono, le nostre vite sacerdotali:
aggiungi un po’ di merito allo scarso valore della nostra offerta;
aggiungi un po’ di fascino alla debole presa della nostra testimonianza;
soprattutto, riaccendi, oggi e per sempre,
un’improvvisa speranza sul nostro cammino sacerdotale
finché tu non venga a chiamarci nella grande sera della vita’.
Così sia.