Carissime sorelle e carissimi fratelli in Cristo,
siamo all’inizio di un nuovo anno pastorale, che sarà caratterizzato dal cammino giubilare. E il filo conduttore della speranza è l’invito ad essere “pellegrini di speranza”, secondo quanto indicato da Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo ordinario.
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. (FRANCESCO, Spes non confundit, 1)
Personalmente credo che le nostre comunità abbiano un profondo bisogno di riscoprire la speranza e di affidarsi ad essa per ridare entusiasmo e prospettiva al proprio cammino di fede. Mi piace pensare che i fedeli delle nostre Chiese locali scelgano di vivere sempre più radicati nell’Amore di Cristo, proprio perché ANCORATI ALLA SPERANZA in Lui, nel Signore Gesù, Risorto da morte (cfr. Spes non confudit 25).
Offro a tutti voi, perciò, una riflessione che mi auguro possa accompagnarvi nell’ingresso in questo nuovo anno pastorale: prendo spunto dalla meditazione della Parola e specificamente della prima lettera di Pietro. (versione stampabile pdf)
Ci fermiamo su 1Pt 1, 3-5. 13-21 e leggiamo il testo in riferimento al contesto ecclesiale in cui viviamo, colmo di ricchezze e di preoccupazioni per il futuro delle nostre realtà diocesane.
3Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, 4per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, 5che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo. (1Pt 1, 3-5)
Ci viene detto che siamo rigenerati: rispetto a che cosa? E perché? In verità abbiamo tutti bisogno di rinascere dall’alto (come chiede Gesù a Nicodemo cfr. Gv 3, 3-5) per ridare una prospettiva eterna ai nostri pensieri, ai nostri desideri, alla totalità della nostra vita. Non siamo stanchi di vivere in una logica piatta ed orizzontale, senza alcun riferimento alla pienezza della vita? Quale futuro ci attende? Se siamo rigenerati è perché siamo chiamati e destinati ad una vita nuova: non può che essere la vita in cui siamo in comunione con Dio, con il Dio fedele e vivo (cfr. 2Tm 2, 11-13) che ci porta con sé nella vita che non finisce. Crederlo non è un’opzione fantasiosa, né si tratta di una proiezione onirica con la quale ci consoliamo: crederlo è, invece, un atto di fiducia piena e cosciente nella Parola che ci ha promesso l’incorruttibilità della nostra esistenza, convocata per la relazione piena con Dio (cfr. 1Cor 15, 53).
Possiamo chiederci: le nostre giornate, le nostre attività quale respiro mostrano? E i nostri giovani (che frequentino o meno le nostre parrocchie) verso quale futuro stanno andando? Non posso che rattristarmi nel vedere che moltissimi giovani non sono attratti dalle comunità, non sono coinvolti nella proposta del Vangelo, non si sentono interpellati dalla nostra testimonianza. Sarà che testimoniamo con poco entusiasmo… sarà che il nostro linguaggio risulta lontano e avulso dalla loro vita… sarà che il loro orizzonte esistenziale è orientato più al mondo “social” che alla ricerca profonda del senso della vita… di fatto, però, la prospettiva esistenziale che essi vivono a me appare piuttosto appiattita sul contingente, sul momentaneo, sull’immediato; so bene che in molti di loro ci sono slanci generosi e creativi, che in molti di loro sono presenti desideri di solidarietà e di gratuità, ma la quotidianità e, spesso, l’assenza di figure educative poste accanto a loro li relega in una “noia” pericolosa.
D’altra parte non posso non registrare una sorta di “tiepidezza” in alcune iniziative delle nostre comunità, ancora più evidente se comparata con l’entusiasmo della stagione postconciliare e con gli anni della cosiddetta “partecipazione”. Attenzione: non è un giudizio, ma la constatazione di un clima umano e sociale in cui si è affievolita progressivamente la spinta a coinvolgersi, a prestare la propria opera, a sentirsi “parte di un unico corpo”, a vivere la dimensione comunitaria, sia in ambito ecclesiale che nelle realtà della comunità civile.
L’Apostolo ci ricorda che siamo chiamati ad un’eredità che non si macchia e non marcisce: ebbene, abbiamo bisogno di saperlo, di ricordarlo, di porlo al centro del nostro cuore per evitare di rimanere inerti dinanzi alle grandi e difficili sfide che il tempo presente offre alle nostre menti e ai nostri cuori. Non voglio cedere all’idea di essere dominato da un algoritmo o da uno sviluppo incontrollato delle forme di intelligenza artificiale! Non accetto che i nostri cuori si abituino alla guerra e alla violenza come a realtà ineludibili e invincibili! Non posso immaginare una società rassegnata all’ingiustizia e all’iniquità nelle relazioni umane e nei rapporti di forza tra potenti ed emarginati! Non mi sento di suggellare con il mio assenso dinamiche sociali di esclusione, di razzismo, di discriminazione, di sopraffazione, di indifferenza rispetto al dolore e alla sofferenza di molti!
No! Voglio e devo poter sperare, invece, in una comunità umana in cui viva la speranza, in cui sia possibile sognare, in cui desideriamo impegnarci per l’edificazione di relazioni di pace e di carità autentiche. Voglio e devo credere che l’uomo può agire diversamente da come leggiamo ogni giorno sui media e sui social, che la persona umana ha ancora tanto di bello da offrire e da donare. Voglio e devo credere che i credenti nella Resurrezione di Cristo intendono porgere al mondo la notizia della Resurrezione, della vittoria sulla morte, della sconfitta del peccato e dell’egoismo. Voglio, cioè, credere (sapendo e vivendo questa verità) quanto afferma San Paolo:
54Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata inghiottita nella vittoria.
55 Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
56Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. 57Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! (1Cor 15, 54-57)
Siamo e saremo rafforzati nel nostro percorso esistenziale dalla certezza della vittoria di Cristo. Ma dobbiamo esserne certi e, perciò, convinti testimoni. Siamo coscienti della forza e della potenza dell’opera salvifica compiuta da Cristo? Quanto questo incide sulle scelte quotidiane che operiamo? La fede realmente innerva il nostro cammino esistenziale? Senza la fede, che si nutre della speranza eterna, la vita dell’uomo si colloca in un ambito buio e ristretto e non riceve prospettive aperte di slancio verso il futuro. Ascoltiamo la sapienza del grande testimone Benedetto XVI:
Non si può non vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di «sostanza», tra sostentamento o base materiale e l’affermazione della fede come « base », come « sostanza » che permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l’uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l’affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova «sostanza» che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima. Lì la nuova «sostanza» si è comprovata realmente come «sostanza», dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente «sostanza» ed è una «sostanza» che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una « prova» che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che ci indica che cosa è e dove sta la vita. (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, 8)
Le parole di Pietro che stiamo meditando ci proiettano in una speranza che ci attende nei cieli. Superate le critiche mosse da tempo immemorabile alla visione cristiana che proietterebbe in una dimensione “onirica” il futuro dell’uomo astraendolo dalla concretezza della storia (si pensi al pensiero marxista e alle numerose ideologie postmoderne), possiamo dire che il fondamento della speranza comporta una riflessione sulla vita eterna che ci attende, che diviene il vero/autentico oggetto della speranza. Sento che nelle nostre comunità c’è un grande bisogno di riscoprire questa dimensione. Collocare la speranza “nei cieli” non vuol dire distanziarla dalla realtà della vita, semmai portare tale realtà nella sua propria dimensione che è quella di essere in continuità con il futuro che percorreremo e che è pensato dall’Amore divino
proprio nella comunione eterna con il Dio della vita. La tradizione del pensiero teologico ha chiamato la riflessione sulla realtà eterna e sul “tempo di Grazia che verrà” con il nome di escatologia e in ogni comunità c’è un vero bisogno di sottolineare la dimensione escatologica della nostra esistenza cristiana; ovviamente, ognuno comprenderà tale esigenza secondo la propria personale ricerca e gli strumenti spirituali di cui dispone, ma credo sia importante sottolineare la centralità della riflessione escatologica: non casualmente Papa Francesco ci ricorda spesso che per vivere intensamente e sapientemente il presente ed il futuro, occorre avere una chiara memoria e una grata considerazione del nostro passato (cioè della tradizione di pensiero e di preghiera che ci accompagna). Le parole di un famoso teologo ci aiutano:
Esiste una “dogmatica” della risurrezione, senza la quale «vana sarebbe la nostra fede» (anche quella nell’immortalità dell’anima?). Esiste una “dogmatica” della salvezza che include e oltrepassa il giudizio («Dio non ha mandato il suo Figlio a giudicare il mondo, ma per salvarlo»: per salvarlo incominciando dai più perduti). Esiste una “dogmatica” del ritorno del Signore «per giudicare i vivi e i morti» (i morti, non solo i vivi). Esiste una “dogmatica” «della vita del mondo che verrà», compresi «nuovi cieli, nuova terra, nuova creatura». Possiamo comprendere, perciò, come sia necessario legittimare l’ìmpegno della teologia e della predicazione per la riapertura del totale della verità rivelata a noi, a noi accessibile, seriamente compromesso dall’abitudine minimalistica alla quale ci siamo adattati. (estratto da: Pierangelo SEQUERI, E la vita del mondo che verrà, Prologo, Milano, 2024)
Siamo – dice Pietro – custoditi dalla potenza di Dio mediante la fede in vista della salvezza. Dinanzi alle difficoltà offerteci dalla vita, rispetto alle fatiche della quotidianità, preoccupati per il clima di generale ostilità generato dalla cultura della guerra e della violenza che ci circonda, manteniamo la fiducia nell’azione sanante di Dio e rimaniamo nell’attesa di quella salvezza che il Signore promette, realizza e dona ai suoi figli che confidano in Lui. Si tratta di vivere in quella “pazienza” insegnataci dalla tradizione spirituale della Chiesa che arricchisce il nostro bagaglio umano.
San Benedetto dice che la speranza, la fiducia in Dio, non deve venire mai meno, neanche nel momento della prova e della sofferenza: “Della misericordia di Dio non disperare mai” (cap. 4,74). È la pagina meravigliosa del quarto grado dell’umiltà, quando, il monaco, “pur trovandosi di fronte a qualcosa di molto duro e contrariante per la natura, abbraccia la pazienza con maturo e consapevole silenzio interiore” (cap 7,35). La pazienza va abbracciata; non ci si limita a tollerare rassegnati. È difficile il silenzio interiore; è difficile in certi momenti far tacere la voce della ragione: «Ho ragione io!…». (Madre Rita BERTONCINI)
Il Signore esercita una vera custodia nei nostri confronti: abbandoniamoci alla Sua Parola e alla fiducia in Lui ricordando la preghiera di Gesù mentre chiede al Padre che tutti noi siamo custoditi nel Suo nome e che diventiamo una cosa sola come lo sono Lui e il Padre (cfr. Gv 17, 11). L’unità tra gli uomini, la fraternità tra i viventi (vera ed unica risposta ad ogni forma di ostilità e di bellicismo), la comunione tra le persone di buona volontà divengono un’anticipazione del Regno dei cieli ed aprono il cuore alla speranza già qui, nella nostra condizione terrena. Impegniamoci anche nelle nostre comunità affinché questo avvenga tra noi; partecipiamo alla vita civile affinché la dimensione della riconciliazione sociale e dell’impegno per la vita comunitaria e per il bene comune siano efficaci; con il cuore, la mente, il desiderio, la preghiera entriamo nell’alleanza per la pace nel mondo intero per sconfiggere l’orrore della guerra e salvare vite innocenti!
È vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr. Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe «vita». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la «vita eterna» – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr. Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi «vita»: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora «viviamo». (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, 27)
In un tempo come il nostro, sentiamo tutti il bisogno di ricercare l’unità e la fratellanza tra gli esseri umani per sconfiggere il demone della guerra e della divisione. L’impegno di ognuno di noi per un cammino di riconciliazione (nelle famiglie, nelle comunità cristiane, nella società civile, nella dimensione mondiale) trova il suo fondamento nella Parola del Signore Gesù che invoca l’unità del genere umano come frutto della comunione con Dio:
11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. (Gv 17, 11)
Come ci ricorda Pietro il fondamento della fede non può risiedere nelle forze umane: è dono di Dio, nasce dalla potenza di Dio, come più volte anche l’Apostolo Paolo sottolinea (cfr. per es: 1 Cor 2, 5; Ef 2, 8). Proprio per tale motivo non possiamo separare la fede dalla speranza, proprio per questo abbiamo un bisogno oggettivo di crescere nella speranza e proprio per questo la speranza è l’orizzonte cui dobbiamo sempre far riferimento:
«Speranza», di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole «fede» e «speranza» sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla «pienezza della fede» (10,22) la «immutabile professione della speranza» (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), «speranza» è l’equivalente di «fede». Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l’aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l’esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano «senza Dio» e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. «In nihil ab nihilo quam cito recidimus» (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, n. 26003] dice un epitaffio di quell’epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete «affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova. (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, 2)
Ma il tema – attuale come in ogni epoca – è: dove porre la speranza? Come fondarsi sulla speranza? Quale speranza può nutrire la nostra vita e liberarci dalle nostre preoccupazioni? Risponde un altro passo della prima lettera di Pietro:
13Perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà. 14Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza, 15ma, come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. 16Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo. 17E se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. 18Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, 19ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. 20Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; 21e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio. (1Pt 1, 13-21)
La consapevolezza che la relazione con Dio ci offre la prospettiva della vita eterna deve camminare di pari passo con l’impegno della vigilanza e della sobrietà. Essere credenti vuol dire anche esercitare la virtù della vigilanza.
È vigilanza imparare a controllare le passioni che ci opprimono (tra cui l’ira, la rabbia, lo sconforto, la gelosia, ecc.), per permettere alla vita di avere uno sviluppo armonico e sereno;
è vigilanza saper scrutare i segni dei tempi e comprendere in quale società viviamo, per rimanere fedeli ai valori immutabili della fede e della dignità umana, avendo a cuore che il seme del Vangelo possa sempre alimentare i nostri pensieri e ispirare le nostre azioni;
è vigilanza essere solleciti nell’individuare le criticità sociali e morali per tutelare i più deboli e prendersi cura dei fragili;
è vigilanza proteggere i piccoli e i giovani per introdurli ad una vita bella e sana, evitando che cadano nelle reti dell’inganno e di tutte le forme di dipendenza;
è vigilanza avere uno sguardo sempre aperto verso il futuro promesso dal Signore come futuro di eternità, sapendo che le nostre scelte non sono indifferenti circa il giudizio finale in cui saremo chiamati a rispondere della nostra vita.
Dobbiamo domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?» Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?» «La vita eterna». Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna». Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, 10)
In questo anno giubilare potremo riflettere sulla speranza e potremo camminare nelle nostre comunità avendo la certezza della vita eterna che ci attende. Siamo incoraggiati dalla tradizione spirituale e dall’esempio dei santi: siamo incoraggiati dalla perenne convinzione che la Chiesa custodisce nella sua Tradizione; siamo accompagnati dalla parola del Magistero di Papa Francesco che ha fortemente voluto che il Giubileo fosse occasione per un pellegrinaggio di speranza da parte del popolo di Dio.
La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo. È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. (FRANCESCO, Spes non confundit, 3)
Quale anno vivremo? Sarà un anno in cui potremo consolidare le relazioni umane e spirituali all’interno delle nostre comunità, godendo del clima di fraternità che man mano cresce nel cammino comune delle due Diocesi. Proseguirà, infatti, la felice prassi dell’aggiornamento spirituale, culturale e pastorale dei sacerdoti che da alcuni anni vede riuniti i due presbiteri. Sono, poi, felice di elencare alcuni momenti che potremo vivere nell’ambito del cammino giubilare, e di presentare alcuni desideri che spero si realizzino per l’arricchimento di tutti noi.
- Il 18 gennaio avremo il pellegrinaggio giubilare interdiocesano presso la Basilica Papale di S. Paolo fuori le mura.
- Nel corso dell’anno giubilare verrà data particolare attenzione – così come chiede Papa Francesco nella Bolla di indizione – al Sacramento della Riconciliazione, sia nelle comunità parrocchiali, sia in alcune chiese in cui ci sarà la presenza di un Penitenziere da me appositamente nominato.
- La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani sarà ricca come ogni anno e sarà preceduta da un incontro per fare memoria del dialogo ebraico-cristiano (13 gennaio); la veglia di preghiera ecumenica sarà comune a tutte e due le Diocesi (22 gennaio).
- I delegati delle due Diocesi parteciperanno – unitamente a me – alle Assemblee sinodali italiane (metà novembre/fine marzo).
- La Scuola di formazione all’impegno socio-politico riprenderà il suo percorso per il secondo anno di vita, iniziando i propri lavori il 9 novembre.
- La Scuola della Tenerezza inizierà per il terzo anno e gli incontri si svolgeranno presso il Borgo della Tenerezza nella località Sasso (Cerveteri).
- Le veglie di preghiera (Veglia Missionaria, 12 ottobre / Veglia vocazionale, 10 maggio/ Veglia per i missionari martiri, 24 marzo) saranno condivise.
- Proseguiranno gli incontri dei cantieri sinodali, come già negli anni passati, rivolti a: amministratori pubblici, operatori socio-economici, artisti, agricoltori, sportivi, esponenti politici, il mondo femminile.
- Offriremo un corso on-line per i genitori, per sostenere la loro azione educativa nei confronti dei figli, con una particolare attenzione all’educazione digitale.
- Prevedo di poter iniziare nei prossimi mesi un percorso di formazione per quei laici che si renderanno disponibili a coinvolgersi per un’autentica corresponsabilità pastorale, secondo quanto indicato dall’ascolto del cammino sinodale.
- Nel corso dell’estate, oltre le consuete attività per i bambini, i ragazzi ed i giovani, e le attività del Servizio di annuncio vocazionale, anche in questo anno proporremo un campo-famiglie in montagna (la novità è che saranno proposte due occasioni, per estendere il numero delle famiglie partecipanti).
- Dopo la bellezza delle esperienze in terre di missione condivise nella scorsa estate da molti giovani, riproporremo la possibilità di trascorrere un periodo presso comunità cristiane che sono alla frontiera dell’evangelizzazione in altri paesi.
- Sempre nel corso dell’estate spero possa essere offerto un itinerario di pellegrinaggio in Polonia, sulle orme di San Giovanni Paolo II, dopo aver vissuto la bella esperienza del pellegrinaggio a Fatima all’inizio del mese di settembre 2024.
Queste attività, unitamente all’enorme lavoro svolto nelle parrocchie – di cui possiamo essere felici e per il quale dobbiamo essere grati all’infaticabile lavoro dei parroci – vorrebbero essere un segno di speranza da condividere, per non rimanere “chiusi” nello scoraggiamento o nella paura, ma aprendosi a quella “speranza certa” che alimenta la nostra fede e ci abilita a camminare con fiducia nella storia che ci è dato di vivere.
O alto e glorioso Dio,
illumina le tenebre de lo core mio.
Et dame fede dricta, speranza certa e carità perfecta,
senno e cognoscemento, Signore,
che faccia lo tuo santo e verace comandamento.
(San FRANCESCO,
Preghiera davanti al Crocifisso)
A Maria, Madre della speranza e Regina della famiglia, a lei, Madre della consolazione e del bell’amore, a Lei, Madre della misericordia e della fiducia in Dio, affido ancora una volta la vita delle nostre comunità, mentre vi benedico tutti con grande affetto.
14 settembre 2024
Esaltazione della Santa Croce
+ don Gianrico, vescovo
17Perciò Dio, volendo mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l’irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento, 18affinché, grazie a due atti irrevocabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. 19In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, 20dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchìsedek.(Eb 6, 17-20)