Cari confratelli nell’unico sacerdozio di Cristo,
dopo l’Omelia della Messa Crismale, al termine del mio servizio ministeriale nel governo della Chiesa di Civitavecchia-Tarquinia che il Vescovo emerito di Roma Benedetto XVI, mi aveva affidato il 25 novembre 2010 e che ringrazio per la stima e la fiducia accordatemi, sento il bisogno di esprimere a voi tutti alcuni sentimenti del mio animo.
Innanzitutto la mia gratitudine: ho trovato in ciascuno di voi accoglienza, affetto, sincera collaborazione; grazie per l’esempio che mi avete dato, grazie per la disponibilità sempre mostrata di fronte a qualunque richiesta, compreso il trasferimento da una Parrocchia ad un’altra, grazie per la collaborazione nel portare avanti gli impegni e i progetti diocesani, grazie per l’affetto con cui mi avete accolto ogni volta che venivo nella vostra comunità.
Chiedo perdono per tutte le mie negligenze, per il mio carattere toscano, per non aver saputo intuire alcune vostre aspirazioni; posso affermare, con sincerità, che vi ho voluto bene.
Di fronte a certe situazioni che si sono create, ho dovuto usare fermezza e ringrazio quanti con me si sono assunti la responsabilità delle decisioni adottate.
Di fronte ad accuse o lamentele di fedeli indirizzate a me o ai Dicasteri romani, vi ho sempre difeso e giustificato; avrei gradito che i sacerdoti, accolti benevolmente in questa Chiesa ma non generati per essa, che hanno scritto contro di me avessero avuto altrettanta franchezza nel parlarne insieme, usando più carità, “la quale copre una moltitudine di peccati”(1 Pt 4,8).
Con l’apostolo Paolo ripeto a ciascuno di voi: “Ricordati di ravvivare il dono di Dio in te” (2 Tm 1,6). Viviamo tempi non facili per quanto ci viene propinato dai mezzi di comunicazione, per cui è facile isolarsi e poi lasciarsi prendere da surrogati di falsa felicità. La nostra condizione di uomini celibi può favorire questa situazione.
L’isolamento è ripiegamento su di sé, è star bene da soli e quindi non sentire il bisogno di vivere la fraternità, non avvertire il bisogno del confronto e della condivisione.
L’isolamento è all’origine di molti problemi d’immaturità nella storia di tante persone, sacerdoti compresi, e la nostra cultura egoista e relativista, smorza il desiderio, l’impegno, la mortificazione e da spazio al piacere e al consumo del piacere.
San Massimo il Confessore definisce il narcisismo “padre di ogni male”, da cui nascono pensieri passionali e folli: per cui “l’immagine vale più dell’essere, l’io più del noi, il mostrarsi più che il concentrarsi, il parlare più che ascoltare, il prendere più del donare, la ricchezza più della saggezza, la notorietà più della dignità, il fare più del sentire, la quantità più della qualità”.
Il 4 settembre 2017, Papa Francesco incontrò i giovani della comunità Shalom e disse loro che l’apparire è come il “truccarsi dell’anima”, è la “malattia dello specchio” che va rotto.
E aggiunse: “se proprio volete guardarvi allo specchio, guardatevi per ridere di voi stessi”.
Penso valga non solo per i giovani, ma per tutti, anche per noi sacerdoti.
La vita sacerdotale è “esistenza protesa verso la gioia”: se manca, è perché è venuto meno il fervore che deve accompagnare la nostra “esistenza-donata”; se in noi prende spazio la negligenza è venuta meno la “speranza” e la nostra evangelizzazione è “partorire vento” (Is 26,18).
San Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi e Papa Francesco nella Evangelii Gaudium ci ricordano che la “gioia del Vangelo nessuno potrà mai toglierci” (cfr. Gv 16,22) ma occorre fare attenzione alla “desertificazione spirituale” in cui potremmo cadere, anche noi presbiteri, in una vita senza o lontana da Dio.
L’esperienza del “deserto”, che ci aiuta a riscoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere, richiede la presenza di persone amiche che vivano di fede e tengano viva la speranza per raggiungere la Terra di Dio: “persone-anfore per dare da bere a chi ha sete” (cfr. EG 84-86).
Bisogna “dimorare nel deserto” per innamorarsi di Gesù e dei fratelli.
Il prete è “l’uomo del deserto” che cerca l’acqua della fraternità, l’acqua della gioia, della stima, del perdono.
“Vigilate su voi stessi”, ciascuno è portinaio del suo cuore; vegliate sulla porta di accesso alla vostra interiorità. Lasciatevi guidare da un padre spirituale: non si è capaci di accompagnare gli altri se non si è accompagnati noi stessi. Nella vita spirituale non esiste “autogestione”: sarebbe fallimentare. Occorre una vita spirituale robusta e densa.
Lasciarsi aiutare nel cammino di vita spirituale e non essere maestri di se stessi, è dono di umiltà, che lo Spirito Santo regala ai semplici.
Ma il dono va chiesto nella preghiera intima, personale con il Signore.
Il prete uscito dal Concilio Vaticano II non è soltanto “l’uomo del sacro”, come lo configurava il Tridentino, ma è “il pastore della comunità”. E’ il pastore, è l’uomo di tutti.
Non chiudetevi negli spazi angusti di persone, di famiglie, di gruppi di cui poi diventate ostaggi.
Il chiudersi vuol dire separarsi. Siate “preti di vicinanza” a tutti.
Questo aspetto della vita sacerdotale si conquista nello stare accanto alla comunità, non come padroni, ma come servi, senza orari, senza essere funzionari, non delegando tutto a laici, ma con essi condividere progettazione e realizzazione del ministero.
Nasce così l’altra figura di prete: “uomo della strada” per camminare insieme.
Sono alcuni pensieri che hanno guidato i lunghi anni del mio sacerdozio e che vi lascio con semplicità. E, se possono essere utili a qualcuno, benedico il Signore.
Con la stima e l’affetto di sempre, invoco per tutti la benedizione del Signore,
+ don Luigi, vescovo
Civitavecchia, 28 maggio 2020